Filippo Turati*
Filippo Turati nacque a Canzo (Como) il 26 novembre 1857 da Pietro e da Adele Di Giovanni. Ricevette dal padre, alto funzionario dell’amministrazione austriaca poi passato a quella italiana, un’educazione conservatrice, alla cui influenza si sottrasse definitivamente negli anni del liceo a Cremona e soprattutto dell’università a Pavia e a Bologna, dove si laureò in Giurisprudenza nel 1877. Stabilitosi a Milano, frequentò gli ambienti della Scapigliatura e della sinistra democratica e laica, guardando con particolare favore all’affermazione delle scienze sociali, che gli sembravano offrire strumenti analitici nuovi ed essenziali all’agire pratico in una società che acquistava caratteri di massa sempre più marcati. Si inserì nel dibattito allora di attualità sul positivismo giuridico pubblicando nel 1882 su «La Plebe», rivista aperta allo sperimentalismo socialista, il saggio Appunti sulla questione penale, con cui pose l’accento sulle cause sociali del delinquere in polemica con le teorie di Cesare Lombroso sull’«atavismo» e sul «delinquente nato». Nel 1885 collaborò all’inchiesta promossa da Agostino Bertani sulle condizioni sanitarie delle popolazioni agricole.
Del positivismo coltivò quelle componenti che si prestavano ad una lettura democratica e antimetafisica, come quella accreditata da Roberto Ardigò contro Terenzio Mamiani, e al recupero della tradizione «liberale» del pensiero nazionale che identificava in Domenico Romagnosi, Gaetano Filangieri, Giambattista Vico, Galileo Galilei e Giordano Bruno. In questo contesto prese netta distanza dalle teorie di Darwin e dall’individualismo a tinte antisocialiste di Spencer. Si interessò di antropologia e di psicologia, come scienze del rapporto tra uomo, società e natura, cioè tra condizionamento ambientale e progresso, tra ereditarietà e atti, tra moltitudine e individuo, tra irrazionalità e razionalità. Di tali interessi rimase sedimentata in lui la convinzione che la rivoluzione sociale non fosse un atto determinato nel tempo, ma l’esito di un’evoluzione tale «da riempire di sé tutta un’epoca», e che il politico dovesse sempre confrontarsi con le istanze collettive più profonde e di lungo periodo, ricavandone nella distinzione tra «politica quotidiana, romana», attenta agli equilibri di governo, e «politica delle masse», consapevole dei grandi flussi storici nazionali nei quali «molto più è l’inconscio, il subcosciente, l’inevitabile».
Nel 1885 conobbe a Napoli Anna Kuliscioff, con cui era stato in corrispondenza l’anno precedente in occasione di una campagna solidale con le vittime dello zarismo. La Kuliscioff, che divenne la compagna della vita, ebbe una grande influenza sulla sua formazione culturale e politica, allargandone gli interessi sul versante del movimento operaio internazionale, costituendone l’interlocutrice attenta e talvolta severa, e poi il filtro intelligente per le relazioni personali e politiche. Si costituì allora un vero e proprio sodalizio umano e politico-culturale, straordinario per intensità e durata, particolarmente efficace nelle assenze da Milano di Turati a seguito del mandato parlamentare ricoperto dal 1896.
Seguì con partecipazione la nascita del Partito operaio, nato in Lombardia in analogia con quanto avveniva in molti paesi europei, e ne prese le difese nel processo a carico dei suoi dirigenti nel 1887. Pur rilevandone il limite nel riferimento esclusivo al lavoro manuale, Turati riconobbe all’operaismo il merito di fare leva sull’organizzazione autonoma – in leghe e in società di mestieri, con finalità mutualistiche, di resistenza e politico-culturali – di quel proletariato nel cui sviluppo materiale e morale riponeva le condizioni stesse del progresso della società. Allora acquisì una diffidenza sostanziale verso tutte le forme di «riformismo dall’alto» o «di Stato» nelle quali il mutamento prescindesse dalla partecipazione attiva e consapevole dei lavoratori. Nell’acquisizione graduale di una visione classista dei rapporti sociali maturò l’adesione al socialismo inteso innanzi tutto come «un fatto» connesso al «divenire sociale», cioè «un indirizzo frutto di osservazioni, di adattamenti continui all’ambiente storico», il quale si sarebbe realizzato attraverso «tutta una lenta e graduale trasformazione, anzitutto dell’ossatura industriale […], poi e coerentemente, una trasformazione e un elevamento, non meno lenti e graduali, del pensiero, delle abitudini, delle capacità, delle stesse masse proletarie». Turati si convinse che alla prospettiva del socialismo, in quanto «fatto intimo e fatale» della storia, attribuisse un carattere di scientificità il marxismo, conosciuto nella versione tardo-engelsiana e inteso, in quanto sistema aperto e suscettibile di successive integrazioni e correzioni, non in maniera conflittuale o alternativa, bensì come integrazione e perfezionamento dei confronti delle «nuove» scienze sociali, di matrice positivista. Dal marxismo ricavò i fondamenti dell’azione politica, affinando il concetto della lotta di classe e l’obiettivo della conquista del potere attraverso l’organizzazione politica della classe operaia, autonoma a distinta, in una prospettiva finale vagamente collettivista. Negli anni ’90 fu il principale attore della sua volgarizzazione in Italia, non con finalità speculative, ma prevalentemente politiche volte alla definizione dell’identità del movimento socialista e soprattutto alla costruzione del Partito nazionale dei lavoratori, secondo le procedure tipiche della II Internazionale fondata nel 1889.
Nel 1889 fondò la Lega socialista milanese, con l’obiettivo di superare tanto l’operaismo, ormai in una situazione di stallo quanto la subalternità alla democrazia borghese. Nel 1890, insieme ad Antonio Labriola, con il quale mantenne rapporti epistolari difficili, inviò a nome dei gruppi socialisti italiani un messaggio di saluto al congresso di Halle della socialdemocrazia tedesca. Dal febbraio 1891 prese a corrispondere con Friedrich Engels, e tale corrispondenza mantenne fino alla morte di questi nel 1895. Nell’agosto 1891 tramite la Lega socialista indisse a Milano un congresso nazionale dal quale uscì l’impegno per la costituzione del Partito dei lavoratori italiani, poi varata nel 1892 al congresso di Genova, con l’esclusione degli anarchici e degli operaisti esclusivisti, ma con l’adesione di tutte le altre correnti socialiste e operaiste. Turati comprese tra i primi la funzione essenziale del partito nazionale in una società tendenzialmente di massa, nella quale faceva il suo prepotente ingresso il proletariato di fabbrica a seguito dello sviluppo del settore secondario e dell’urbanesimo, si andavano sindacalizzando strati consistenti di lavoratori dei campi, si «facevano popolo» gli impiegati e i dipendenti pubblici dando vita a forme associative analoghe a quelle degli operai, l’allargamento dell’elettorato poneva nuove esigenze di mobilitazione del consenso, in generale gli interessi di categoria si diversificavano e si strutturavano. E non a caso alla prospettiva partitica rimase sostanzialmente sempre fedele, anche in posizione talvolta defilata e minoritaria. Ne derivò l’interesse verso talune categorie di lavoratori, di cui assunse il patrocinio in Parlamento e nei corpi consultivi dello Stato, come nel caso dei postelegrafonici e dei ferrovieri. Al fondo, tese a identificare la funzione sociale dell’operaio colto e organizzato con lo stesso progresso e a riconoscere un fondamento etico al lavoro stesso.
Per Turati il Partito socialista era nato sulla preesistente trama di gruppi di matrice democratica, ma non meno in funzione alle divisioni e alle debolezze di essa, palesi nella tendenza al verbalismo e al formalismo, e soprattutto nella incapacità di rafforzarsi su basi di massa. E proprio dal confronto con la realtà «gelatinosa», velleitaria e perfino elitaria della democrazia italiana, manifestò l’ammirazione verso la socialdemocrazia tedesca, capace, a suo avviso, di coniugare pensiero e azione per disciplina e proselitismo.
Ai fini del suo disegno politico Turati si avvalse, a partire dal 15 gennaio 1891, della rivista «Critica sociale», rilevata e trasformata dalla precedente «Cuore e critica» di Arcangelo Ghisleri. Nel panorama assai ampio delle pubblicazioni consimili, essa si caratterizzò per vitalità e durata, tanto da considerarsi fino all’avvento del fascismo «il centro intellettuale» del movimento socialista italiano nella versione riformista e gradualista. Turati la utilizzò per recuperare l’impegno civico in un confronto costruttivo con il mondo del lavoro; per tessere una fitta rete di relazioni con esponenti del socialismo europeo, accreditandosi, anche così, come leader autorevole, certamente il più conosciuto e apprezzato all’estero; per dare respiro e risonanza all’attività del gruppo parlamentare socialista di cui fu solerte e costante ispiratore; per attuare una vera e propria «guida socialista alla politica». La rivista bimensile non solo diffondeva tempestivamente un messaggio politico ripreso e dilatato dalla stampa locale, ma era centro di un’intensa attività editoriale, raccogliendo in opuscolo gli articoli più significativi o i discorsi parlamentari, svolgendo opera di distribuzione anche di saggi non propri, in particolare con la «Biblioteca di propaganda», che nel 1894 contava già ottantaquattro titoli. La rivista trascurò volutamente la tematica più propriamente scientifica e filosofica, e si indirizzò verso la cultura che «più si accostas¬se alla vita e all’esperienza comune», cioè si rivolse alla «media della gente colta» piuttosto che a ristretti cenacoli di specialisti e di intellettuali. Nel perseguire tale obiettivo riallacciandosi al «pensiero nazionale» laico e liberale filtrato per «le vie nuove» del positivismo e attraverso la lettura marxista, Turati pose il problema, allora centrale, dell’accesso democratico alla scienza e alla cultura e dell’accostamento di queste alle «grandi correnti della vita popolare» il cui centro unificante e vivificatore vide «nella immensa folla proletaria». In ciò mantenne un impegno costante, pur passando dall’iniziale prevalente obiettivo della volgarizzazione del marxismo a quello successivo della socializzazione della cultura elementare e tecnico-scientifica, e del patrimonio storico-artistico nazionale, anche mediante l’iniziativa della diffusione del libro attraverso il circuito delle biblioteche popolari. Nell’attribuire un ruolo importante all’intellettuale nel mutamento della società, Turati si adoperò per rompere la tradizionale osmosi risorgimentale tra la ristretta e omogenea classe dirigente, il vertice degli apparati burocratici e il mondo accademico, e per superare al tempo stesso la figura dell’intellettuale giacobino.
Una volta risolto il problema prioritario della costituzione e dell’insediamento del partito nell’autonomia e nella distinzione, Turati rifuggì ben presto da posizioni di isolamento intransigente e dogmatico, che gli sembrarono condannare all’impotenza, ricacciando le forze di democrazia borghese su posizioni conservatrici o dando pretesto a quelle più reazionarie per atti illiberali. Secondo una prassi ammessa e teorizzata dalla socialdemocrazia europea per i paesi più arretrati, respinse la tesi della borghesia come unica massa reazionaria e ricercò costante- mente un dialogo con quella parte che considerò «vera e propria; giovane intraprendente, moderna», perché pur curando il proprio interesse, anzi per attendervi meglio, avrebbe riconosciuto i diritti di tutte «le classi operose», ivi compresi quelli del proletariato contrastando «il superstite medioevo economico e morale, delle vecchie baronie», cioè dei ceti agrari e della grande proprietà assenteista del Mezzogiorno, degli ambienti aristocratici e militaristi. Richiamando l’attenzione sull’antagonismo della rendita fondiaria non solo verso il salario, ma anche nei confronti del profitto, di fatto la indicò a nemico prioritario e irriducibile.
L’impegno di Turati, per lo più in minoranza, perché il partito superasse il «semplicismo» della posizione ufficiale di assoluta chiusura con le forze affini e di sconfessione dei moti che non si proponessero il trionfo immediato degli ideali socialisti, si definì in occasione delle convulsioni autoritarie della classe dirigente negli anni ’90. Di fronte alle misure repressive assunte dal governo crispino il 3 gennaio 1894 contro i fasci siciliani, ai quali riconobbe almeno l’anima se non la forma della lotta di classe, Turati utilizzò la corrispondenza con Engels sui tempi e sulle modalità della ibrida «rivoluzione italiana» nel richiamo al Manifesto («il Vangelo del socialismo moderno») per accreditare la tattica transigente e l’ipotesi che nelle condizioni arretrate dell’Italia l’appoggio dei socialisti ad un eventuale moto rivoluzionario dovesse avere almeno un obiettivo concreto: la difesa della libertà, considerata un valore in sé, premessa di qualsiasi programma, anzi condizione stessa del confronto politico. In questo ambito, anche per contrastare la legge sul domicilio coatto e le disposizioni di Crispi contro il partito, nell’ottobre 1894 fondò insieme a repubblicani e radicali la Lega per la difesa della libertà. Qualche anno più tardi, il 9 maggio 1898, in occasione dello stato d’assedio proclamato a Milano a seguito dei moti per il pane e contro il carovita Turati fu arrestato e privato dell’immunità parlamentare, e il Io agosto venne condannato a dodici anni di prigione dal tribunale militare. In carcere Turati restò quattordici mesi, beneficiando dell’indulto nel giugno 1899. Da tale dura prova, aggravata dal ritorno della nevrosi di gioventù e dalle preoccupazioni per la salute della Kuliscioff, anch’essa arrestata e condannata, Turati uscì definitivamente confermato nella convinzione dell’indissolubilità della lotta per la democrazia da quella per il socialismo, nonché della necessità di una partecipazione più intensa e matura alla vita pubblica. Sulle colonne di «Critica sociale» aveva già sollecitato la discussione per «un programma pratico»: fin dal 1892 a favore dei contadini prendendo occasione dalle polemiche sul rapporto tra socialismo e popolazione; poi sull’interventismo statale e sul liberismo, nei confronti del quale si dichiarò «di regola» favorevole, e comunque sempre ai fini dell’abolizione dei dazi sul grano, ma con l’ammissibilità di eccezioni nel settore industriale e militare; infine su obiettivi di democratizzazione e di ammodernamento della società che costituirono la piattaforma rivendicativa «minima» prospettata ai congressi nazionale del partito dal 1893 al 1897, e infine definitivamente varata al congresso di Roma del 1900.
Nel dibattito sul revisionismo Turati assunse una posizione apparentemente defilata, attento a non compromettere le relazioni personali e politiche costruite negli anni precedenti nell’ambito del socialismo internazionale, dove ufficialmente prevalse la linea ortodossa, e soprattutto per non offrire argomenti ai suoi nemici interni, a cominciare da Enrico Ferri, leader della corrente intransigente rivoluzionaria, che dal 1901 condusse contro di lui un’acre polemica. Presentò tuttavia la Bernstein-Debatte come «la benefica scossa recata nel seno del socialismo teorico e pratico» nella rinuncia al dogmatismo e per la valorizzazione data del «nuovo» rappresentato dalla impetuosa crescita del movimento sindacale e associativo. Non seguì Bernstein nella considerazione della «moltitudine di gradazioni intermedie» e della «scarsa omogeneità della classe operaia» per accreditare l’alleanza strategica con le forze di democrazia borghese; ma ancor più respinse la prospettiva del rifugio della classe operaia nella «integrità del suo isolamento», attribuita a Kautsky. Si riconobbe piuttosto nella posizione di Jaurès, definita «riformista» o «dell’azione», e tornò ad auspicare il superamento delle discussioni astratte e oziose sull’«ora del paradiso» per lavorare invece «sempre, ogni ora, ogni minuto, all’aumento del socialismo» («vivere sempre in stato di grazia socialista»). Di Jaurès condivise la tesi che i partiti socialisti, nati da «un forte contrasto» per diffondere la coscienza dei nuovi bisogni, si adattassero gradualmente alle pieghe della società, passando dall’internazionalismo alla nazionalizzazione, dal catastrofismo allo «sviluppo di germi nel passato già contenuti», assumendo le caratteristiche infine di «partiti governanti» (e poi, semmai, «di governo»). L’orientamento antidogmatico e antiretorico indussero Turati ad assumere dopo il 1903-4 un atteggiamento critico verso l’Internazionale socialista, che definì «un Sinai internazionale da cui si proclamavano generalità vacue e sonore», impegnato nelle dispute sulla definizione del socialismo più che a operare in quanto «vivo parlamento mondiale dei lavoratori». Egli indicò di contro «il terreno delle singole nazioni […] in nesso alla realtà vivente e multiforme, limitata nello spazio e nel tempo», come l’unico che consentisse di svolgere l’«opera positiva», cioè di accumulare «larga massa di esperienze» e di risultati partendo dai quali fosse possibile «fare rifiorire» la stessa Internazionale, finalmente «in carne ed ossa».
Turati, che aveva preso parte ai congressi socialisti internazionali di Bruxelles e di Zurigo nel 1891 e 1893, e che fece parte del Bureau dell’Internazionale dalla sua costituzione nel 1900 fino al 1908, andò progressivamente disertando le riunioni dei socialisti europei, polemizzando ora apertamente contro la socialdemocrazia tedesca, accusata di «impotenza» politica, ma prendendo pure le distanze tanto da Bernstein quanto da Millerand e dallo stesso Jaurès, i quali tutti, a suo avviso, avevano mancato nell’obiettivo di condurre a fondo il rinnovamento programmatico e il radicamento nazionale del socialismo riformista non evitando il rischio dell’isolamento e dei compromessi, e non riuscendo a portare con sé la gran parte delle organizzazioni dei lavoratori. I tempi di tali polemiche erano dettati anche dall’evolversi della cosiddetta lotta di tendenza all’interno del socialismo italiano, dove Turati, leader riconosciuto della corrente riformista e gradualista, si confrontò prima contro la coalizione intransigente rivoluzionaria di Enrico Ferri, Costantino Lazzari e Arturo Labriola, eterogenea ma risultante temporaneamente vittoriosa al congresso di Bologna del 1904, la quale godeva delle simpatie degli ambienti dell’Internazionale, a cominciare da Kautsky; poi si impegnò nella dura lotta ai sindacalisti rivoluzionari, risoltasi positivamente con la fondazione della Confederazione generale del lavoro nel 1906 e il loro abbandono del partito; infine nei confronti degli integralisti di Oddino Morgari. Uno dei motivi centrali della lotta di tendenza in Italia fu la diversa valutazione della natura della svolta liberale che, in coincidenza con una fase di alta congiuntura economica e di sviluppo industriale, agli inizi del secolo si concretizzò nella formazione del governo Zanardelli-Giolitti, al quale guardò con favore. Con Giovanni Giolitti, dominatore della scena parlamentare fino al 1914, Turati non ricercò mai un’alleanza stabile e vincolante quanto la convergenza su alcuni obiettivi essenziali: la lotta alla rendita; il superamento dei conati autoritari con la riaffermata neutralità dello Stato nei conflitti di lavoro e in generale l’interpretazione liberale dello Statuto albertino in cambio dell’accantonamento della questione monarchica, nonché il progressivo ma decisivo allargamento del consenso popolare; il sostegno alla organizzazione degli interessi, che sul versante del mondo del lavoro avrebbe significato la piena e definitiva legittimazione della rappresentanza politica e sindacale; la introduzione di un’avanzata legislazione di tutela del lavoro e l’avvio di quello che si sarebbe chiamato lo Stato sociale, chiamandone alla definizione le rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro in appositi organi consultivi dello Stato; la politica estera di raccoglimento o del piede di casa. Nell’ambito di tali premesse il socialismo riformista di Turati contribuì in maniera decisiva a fissare alcuni dei caratteri fondamentali e a radicare nel territorio le istituzioni della si¬nistra italiana: dalla rete associativa e cooperativa, alle strutture sindacali territoriali e verticali nell’ambito della Confederazione generale del lavoro, alle amministrazioni locali rosse.
Agli inizi del secolo Turati aveva definitivamente acquisito il concetto che il riformismo dovesse fissare i risultati e le conquiste in istituzioni legali. Abbandonata la tesi dello Stato come comitato di affari della borghesia, si era fatto sostenitore della democratizzazione e dell’ammodernamento di esso attraverso la rivalutazione dell’istituto parlamentare, che ben presto elesse a sede privilegiata del confronto politico, e per la quale reclamò il suffragio universale, lo scrutinio di lista, l’introduzione della proporzionale e l’indennità dei deputati. Sostenne la riorganizzazione dello Stato, reso permeabile alla partecipazione dei lavoratori nei corpi consultivi, sulla base della rivendicata autonomia dell’ente locale, definito «la patria più vera» e la cellula fondamentale della società in grado di soddisfare i bisogni essenziali dell’individuo e della collettività, fino a porsi, insieme alla società cooperativa, come fattore di orientamento e di razionalizzazione del mercato. Gli attribuì finalità sociali, con l’erogazione di servizi assicurativi e forme varie di intervento, specialmente sul mercato del lavoro. Non mise mai in discussione la meta finale della collettivizzazione, ma la ridusse sempre più a tendenza al rafforzamento dell’area pubblica rispetto a quella privata nella presunzione della prevalenza dell’interesse collettivo su quello individuale. Manifestò sempre disagio sulle questioni monetarie e finanziarie, ma riuscì a fare di «Critica sociale» il punto di riferimento per una nuova leva di imprenditori e amministratori pubblici impegnati nella ricerca di nuove forme di attività economica non regolate dal puro profitto capitalistico, pur operanti in regime di mercato.
Il riformismo sociale di Turati si scontrò innanzi tutto con i limiti dello sviluppo e dell’industrializzazione di un paese «secondo arrivato» con vaste aree di arretratezza, ciò che finì per accentuare e per rendere più palesi tradizionali squilibri, come tra Nord e Sud, e per favorire imponenti fenomeni di mobilità sociale per l’allargamento del mercato nazionale e internazionale. Nel breve periodo soffrì dell’inversione della congiuntura economica nel 1907, che ebbe pesanti riflessi sul mercato del lavoro e sul costo della vita, e pose l’esigenza di una ristrutturazione dell’apparato produttivo, non sempre avvertita, in merito alla quale emerse un ceto imprenditoriale più interessato a pervenire ad una diversa gerarchia sociale che a mantenere relazioni industriali fondate sul confronto paritario tra interessi organizzati, tanto più che ad esso si accostarono i ceti agrari che mai avevano smesso la sorda ostilità contro l’ascesa del socialismo nelle campagne, nonché parte del ceto medio alla ricerca di una propria identità. Finirono per assumere carattere prevalentemente difensivo l’obiettivo della socializzazione del sapere, elementare e scientifico, e la sostanziale conferma della lettura tradizionale del «socialismo scientifico» che la «Critica sociale» oppose al dinamismo aggressivo delle correnti culturali antigiolittiane, per lo più antidemocratiche e antiparlamentari, di destra e di sinistra, di matrice antipositivistica, interpreti del culto della violenza e della ribellione, dell’idealismo e del volontarismo. Sul piano politico il socialismo riformista fu causa e prodotto insieme, tra i più rilevanti, dell’allargamento della cittadinanza, nel passaggio dal liberalismo risorgimentale elitario alla democrazia parlamentare e di massa, scontandone tutte le difficoltà poi esasperate dalla guerra e dalla crisi del dopoguerra. La convergenza con la politica giolittiana fu messa a dura prova dai limiti riformistici della «svolta liberale», già dal 1903-1904, di cui furono sintomi eloquenti la discussa gestione dell’ordine pubblico e l’impaludamento dell’azione parlamentare. La prospettiva della graduale integrazione politica e sociale delle masse nello Stato liberale fu resa più ardua dalla sopravvivenza di aree diffuse di sovversivismo all’interno del movimento operaio italiano, specialmente in periferia, e, non meno, dal prevalere nel partito della corrente intransigente rivoluzionaria nel 1912 e più tardi di quella massimalista. Punto decisivo della divaricazione con le classi dirigenti liberali, nonché con parte della intellettualità e dei ceti medi, fu il venir meno della politica estera del piede di casa.
Turati, pur non indulgendo mai alla «propaganda della pace fatta arcadicamente», considerava il confronto pacifico la condizione per l’avanzata del socialismo, e poneva il riformismo sociale in alternativa tanto alla «politica della disperazione» e della violenza di cui scorse una riproposizione nel mussolinismo nel 1912-14, quanto al militarismo, anche nella versione irredentistica. Semmai passò dalla ricerca di amichevoli relazioni tra i partiti socialisti come base per il mantenimento dell’equilibrio europeo, al convincimento della necessità di pervenire ad un nuovo ordine internazionale retto da una rete di scambi commerciali in una cornice liberista e di relazioni culturali, nonché, all’indomani del conflitto mondiale, di riconosciute autonomie nazionali ricondotte entro «una cooperativa delle genti» e in una prospettiva di graduale disarmo, garantite dalla Lega delle nazioni e infine dagli Stati uniti d’Europa e d’America. Ritenne dunque che la guerra libica inducesse il movimento socialista italiano a «tornare al paese» in una intransigente opposizione politico-parlamentare. Fece tenace propaganda perché l’Italia si tenesse fuori dal «grande massacro» nel 1914-15; poi, fallito tale obiettivo, tenne ferma la divisione delle responsabilità nei confronti delle classi dirigenti e degli interventisti, senza tuttavia rinunciare ad un’intensa opera di «croce rossa» a favore delle popolazioni, la cui evidente contropartita fu la richiesta di garanzie contro l’ipotesi di una svolta antidemocratica all’interno ai sensi della legislazione straordinaria limitativa delle libertà individuali e di gruppo. Nell’arduo sforzo di «guardare alle idee comuni superiori alle contingenze» cercò di salvare il futuro operando intanto per una soluzione politico-diplomatica del conflitto, senza vincitori e senza annessioni, specialmente alla fine del 1916. Per il conseguimento della «pace con giustizia» ritenne poco probabili i convegni socialisti del tipo di Kienthal e di Zimmerwald, iniziative attribuite a gruppi minoritari e non particolarmente rappresentativi, e in ogni circostanza, anche in netta minoranza, si adoperò perché almeno fossero inseriti in un contesto istituzionalizzato – di partito, sindacato o, meglio, gruppo parlamentare – e perché pure formalmente non si configurassero preclusivi nei confronti di una parte. In previsione delle trattative per la pace nell’ottobre 1918 ispirò la mozione del gruppo parlamentare socialista con cui si reclamavano il rispetto del diritto all’autodecisione e «la convocazione di popoli e di stati» nessuno escluso, il disarmo e il riconoscimento dei «diritti sovrani del lavoro, unica forza ricostruttrice». Trovò debole l’azione dei socialisti italiani e europei nel merito dei lavori della Conferenza di pace, di cui denunciò poi la «mostruosità» e il fallimento per la clausola dei «popoli vinti»; e si appellò ai partiti socialisti europei per un’iniziativa volta alla sua radicale revisione. In Turati rimase sempre viva la convinzione del trauma profondo prodotto dalla guerra sulla società europea e italiana in particolare, fino a individuare in essa la motivazione essenziale del crollo dello Stato liberale e dell’avvento del fascismo. Non a caso alla cessazione del «clima di guerra» legò la possibilità della ripresa del riformismo all’interno del movimento operaio italiano con la fiducia che esso sarebbe risultato vincitore nel lungo periodo.
All’indomani del conflitto mondiale rinnovò i contatti con i partiti socialisti europei per la ricostituzione dell’Internazionale e comunque per la creazione di un fronte comune alternativo al bolscevismo. Richiamandosi al consueto schema evolutivo e contrapponendo Marx a Lenin condannò fin dall’inizio la Rivoluzione d’ottobre, e giu¬dicò la posizione dei comunisti e dei massimalisti italiani «strumento passivo» dell’Internazionale moscovita, a suo avviso a servizio «della politica di un solo Stato». Turati correlò la ripresa di tali rapporti con l’esigenza dell’aggiornamento dei programmi del socialismo europeo e italiano, che nella fase della ricostruzione si trovò a confrontarsi con la rivoluzione bolscevica e l’opportunità di partecipazione al potere in regime borghese. Dopo il successo socialista nelle elezioni politiche del 1919 accentuò la tendenza della «Critica sociale» a farsi portavoce della «funzione parlamentare» del partito, che ritenne essenziale per le sorti non solo del socialismo italiano, ma financo delle istituzioni liberali. Agli inizi del 1920, in collaborazione con Angelo Omodeo, Benvenuto Griziotti e Vittorio Osimo, cercò di delineare un programma d’azione «serio e concreto» che consentisse di superare la crisi interna di partito ponendo fine all’impotenza del massimalismo «spaccone e inconcludente», e non meno di invertire la tendenza «al precipitare dello sfacelo» per l’impossibilità a governare». Turati faceva affidamento sull’evoluzione in senso «laburista» del governo Nitti. Tra la fine di febbraio e i primi di marzo 1920 Turati si impegnò in defatiganti contatti per definire «il programma d’azione», ma con risultati parziali, tanto più che da tempo la sua persona – come il riformismo – era oggetto di una durissima polemica interna di partito, e le dimissioni di Nitti sembrarono fare mancare l’interlocutore politico. Di ciò restò traccia nel discorso parlamentare noto con il titolo Rifare l’Italia, pronunciato nel giugno 1920 in occasione della presentazione del quinto ministero Giolitti, e di auspicio per il rilancio dell’intervento pubblico a fini produttivi con la partecipazione delle organizzazioni del proletariato in una rinnovata collaborazione con i «ceti operosi». Si risolse infine, specialmente dopo la caduta del primo governo Facta nel giugno 1922, a sollecitare il gruppo parlamentare a sostenere un ministero che «ripristinasse la legge e la libertà», proposta che dette pretesto a nuove polemiche interne, per niente ricomposte dopo la scissione del Partito comunista d’Italia nel gennaio 1921, tanto che nell’ottobre 1922 si pervenne ad una nuova scissione, quella dei riformisti che dettero vita al Partito socialista unitario. Di questo fu eletto segretario Giacomo Matteotti, ma Turati ne restò il leader più autorevole.
Turati fu un irriducibile avversario del fascismo, di cui però sottovalutò la forte accelerazione sulla crisi politico-istituzionale. Né trascurò alcuna occasione per opporsi, senza tentennamenti, al governo Mussolini, ma risultò in ciò indebolito dai vasti sostegni ad esso accordati anche dai potenziali interlocutori, specialmente nelle file liberali e democratiche. Rilanciò ancora l’esigenza della revisione politico-programmatica del socialismo italiano, legandola alla lotta al fascismo, la quale ne condizionò temi e tempi, in merito al rapporto tra socialismo e libertà tra politica ed etica, tra educazione e azione. Anche per questa via avviò una riflessione autocritica, ma non «autodemolitoria», al tempo stesso personale e generazionale, specialmente sul punto della eventuale partecipazione agli ultimi governi liberali. Rispetto alla fase costituente degli anni ’90, a Turati mancò la possibilità di un immediato riscontro politico, tanto più che la svolta totalitaria del regime mise fine a tale esperienza che altrove si conduceva con partiti socialisti al governo o in procinto di giungervi. In misura proporzionale all’entità della sconfitta cercò all’estero, sul piano diplomatico e nella solidarietà dei partiti operai europei, la possibilità di uscire dall’isolamento, tanto che riprese, in età avanzata, a partecipare alle iniziative e ai convegni internazionali. Nutrì la speranza che dalla vittoria liberal-laburista in Inghilterra e dalla conseguente formazione del governo MacDonald nel gennaio 1924 derivassero positive ripercussioni in Europa, ma si ricredette ben presto, dopo la visita dei reali italiani a Londra.
Fu dunque in prima fila nella propaganda antifascista all’interno e all’esterno con la motivazione che il fascismo aveva un contenuto intrinsecamente reazionario, ma non poteva essere circoscritto semplicemente a «episodio passeggero» e tanto meno alle ipotetiche condizioni di arretratezza della realtà italiana. Dopo l’omicidio di Matteotti, fu tra gli ispiratori dell’Aventino, cercando inutilmente di conferirgli un contenuto programmatico intorno alla democratizzazione delle istituzioni. Dopo il fallimento dell’«Aventino» e la messa al bando del Partito socialista unitario a seguito del fallito attentato di Tito Zaniboni, la morte della Kuliscioff il 29 dicembre 1925 sembrò gettare Turati nella depressione. Ma da tale stato si riprese ben presto per tornare con lena all’attività politica antifascista, non indietreggiando neppure di fronte all’ipotesi della costituzione di un nuovo quotidiano, sia pure in veste modesta, e della ristrutturazione del partito in un clima di semiclandestinità nel settembre-ottobre 1926. Pur essendo in generale contrasto all’espatrio, non ultimo per la ripugnanza ad abbandonare le posizioni vis-à- vis du prolétariat, fu infine convinto da Ferruccio Parri, Carlo Rosselli, Sandro Pertini e altri a rifugiarsi all’estero, rappresentando egli, dopo l’uccisione di Matteotti e l’Aven- tino, il simbolo vivente di una pagina fonda- mentale della storia del socialismo, quella della II Internazionale e della costituzione dei partiti socialdemocratici, vissuta con coerenza e senza abdicare neppure di fronte alla guerra mondiale, e della lotta irriducibile per la libertà e per la democrazia.
La fuga, che entrò subito nella leggenda dell’antifascismo, risultò avventurosa: iniziata a Milano il 24 novembre si concluse in Corsica il 12 dicembre. Turati presentò il processo di Savona dell’agosto 1927 contro i suoi compagni di fuga come se fosse celebrato a carico della dittatura fascista da parte del popolo italiano perché riassuntivo della «tragedia dei proscritti». Tragedia che, insieme al ricordo vivissimo del «martirio» di Matteotti, Turati fece interamente sua, per ritrovare rinnovate energie nella consueta opera di «croce rossa» a favore degli esuli, nell’attività di propaganda e di denuncia presso l’opinione pubblica internazionale e nell’intento di influire sugli orientamenti dei partiti socialisti europei, nel tentativo di ritessere un fronte democratico antifascista, il più possibile unitario. Dette così un impulso decisivo alla costituzione della Concentrazione antifascista nel marzo 1927, e assunse la direzione del bollettino «Italia» edito a Parigi dall’aprile 1929 al 21 marzo 1932. Per il suo prestigio fu nominato presidente dell’Unione dei giornalisti italiani Giovanni Amendola. Sostenne l’iniziativa editoriale de «La Libertà», di ispirazione democratica e antifascista più che socialista, affidata a Claudio Treves. Nel 1929 cercò di promuovere a Parigi una conferenza antifascista europea, ma fallì nello scopo. Nel luglio 1930 appoggiò l’iniziativa della riunificazione dei partiti socialisti italiani, concretizzatasi al congresso di Parigi. E tutto ciò nella convinzione, fin dalla primavera del 1926, che la reazione fascista non avrebbe potuto essere eliminata «attraverso processi storici ordinari», come se si trattasse dell’occupazione dell’armata straniera in un paese, ma solo da un insieme di avvenimenti, politici e economici, di carattere internazionale, e che pertanto non avrebbe vissuto abbastanza per rivedere l’Italia postfascista, che auspicava democratica e repubblicana. Turati morì a Parigi il 29 marzo 1932, salutato come «maestro» e leader del socialismo italiano ed europeo, uno degli ultimi della II Internazionale, e «grande combattente» per la libertà.
* Filippo Turati di Maurizio Degl’Innocenti, in Dizionario storico dell’Italia unita, a cura di Bruno Bongiovanni e Nicola Tranfaglia, 2007, Roma, Edizioni Laterza, pp. 926-936